Home / ANEDDOTI  / FEDERICO BUFFA: #RACCONTIAMOCI AD UNISA

FEDERICO BUFFA: #RACCONTIAMOCI AD UNISA

Federico Buffa è uno dei più competenti fra i narratori sportivi in circolazione, dotato di una capacità dialettica tale da affabulare letteralmente le platee di cultori del suo modo di fare giornalismo. Anche stavolta il noto commentatore di SKY ha fatto il pienone nell’incontro tenutosi presso il teatro di ateneo dell’UNISA nel corso del quale Buffa si è intrattenuto sui temi più disparati, che hanno tratto spunto da alcune sue produzioni.

Cosa ci dici sulla storia del Grande Uruguay?

“È un lavoro al quale tengo particolarmente. Abbiamo impiegato una settimana per produrre lo speciale ed è stato di fondamentale importanza per il sottoscritto recarsi una settimana a Montevideo così da potermi calare ulteriormente nella vicenda. Mi piaceva molto l’idea di raccontare la storia di quel Mondiale particolare. Nessuno aveva il coraggio di arbitrare la finale tra Uruguay ed Argentina, alcune partite furono giocate con dischetti del rigore piazzati a 13 metri anziché 11, il battello che doveva portare i tifosi dell’albiceleste allo stadio si perse tra la nebbia del Rio de La Plata: sono tanti gli episodi che meritavano menzione. Inoltre gli uruguagi hanno maggiore memoria storica dell’Italia in quanto non solo serbano gelosamente i resti dello stadio nel quale si giocarono quelle partite, ma lo hanno anche ricostruito e ridipinto affinché il ricordo di quella nazionale fantastica, capace di vincere anche l’oro nelle due Olimpiadi precedenti, rimanesse per sempre indelebile. Per far comprendere quanto fosse forte l’Uruguay a quei tempi, vi dico che la celebre locuzione ‘gol olimpico’ usata per celebrare un gol realizzato direttamente da corner è stata coniata per narrare di un gol del genere segnato contro l’Uruguay, la squadra olimpica per eccellenza in quegli anni. Possiamo tranquillamente dire che l’amore per il calcio è nato sul Rio De la Plata”.

Ritieni sia stata una scoppola peggiore la sconfitta per 1-7 rimediata dal Brasile contro la Germania ai Mondiali 2014 o l’eliminazione dell’Italia ai playoff per mano della Svezia?

“Non saprei. I cinesi vedono dietro ogni crisi una opportunità e quindi si fa presto a dire che la catastrofe annunciata del calcio italiano non potrà fare altro che portare innumerevoli benefici. Personalmente non ritengo che la problematica sia inerente ai troppi stranieri nelle rose italiane: c’erano anche nel 2006! Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un’intervista di Moravia ad Herrera, nella quale il grande Mago dell’Inter asseriva: ‘il calcio serve come distrazione per gli studenti e per tenere gli operai lontani dalla rivoluzione’. Questa visione di un uomo figlio di un anarchico spagnolo, cresciuto in Marocco, ma argentino di nascita è proprio calzante ad un sudamericano. In quella parte del mondo si vive con maggiore trasporto lo sport e personalmente ritengo che sia sbagliato dire che determinati calciatori possano non risultare confacenti ai ritmi del calcio italiano: il caso di Torreira della Samp è lapalissiano”.

Cosa hai provato nel parlare di Arpad Weisz?

“Storia particolare e toccante. Premetto che non mi sento particolarmente a mio agio quando parlo di calcio, però mi fu chiesto di fare un pezzo che avesse qualcosa a che fare con il Giorno della Memoria. Allora pensai di narrare la storia di quest’uomo, consapevole del fatto che pochi studenti vengono solitamente stimolati sull’argomento leggi razziali dai professori di storia. Arpad Weisz era un Guardiola dei tempi moderni, un allenatore invidiato in tutto il mondo per le sue capacità, il più giovane ad aver vinto lo scudetto (a 34 anni nel 1930 con l’Inter), campione d’Italia anche con il Bologna, ma vittima di un ingranaggio più potente di lui. Scappò in Francia sperando di trovare occupazione, invece fu ingaggiato da una squadra ai confini tra Olanda e Germania e fu facilmente trovato per essere successivamente ucciso presso i campi di concentramento. Mi piace rammentare due cose: Weisz scoprì Giuseppe Meazza ed allenò Viani, uno che a Salerno ha fatto la storia”.

Quale effetto ti ha fatto parlare di Chamberlain?

“Quando parlo di Basket, mi sento a casa mia e riesco ad essere più naturale. Personalmente ritengo che la vita di Chamberlain sia stata quella di un semidio: primo uomo a segnare 100 punti in un singolo incontro, nato alto 60 cm, capace di saltare 2 metri in alto a 15 anni, reo del cambio di regolamento sui tiri liberi altrimenti avrebbe realizzato sempre in schiacciata. La ciliegina sulla torta sono le 20.000 donne che professa d’avere avuto nella vita! Al cinquantesimo avversario dalla nascita della NBA, Malone gli chiese un autografo e lui gli chiese se il suo nome si scrivesse Carl o Karl. Infine ricordo un aneddoto vissuto dal sottoscritto in prima persona. Mio padre mi regalò una summer session presso l’università di Los Angeles nel 1979 e mi intrattenevo a vedere le partite di basket nella palestra dove ancora era solito dispensare grandi giocate il buon Chamberlain, ultra quarantenne, ancora in splendida forma, solito recarsi al campo in Bentley. Ebbene un giorno si trovò a giocare lì un giovanissimo Magic Johnson che osò chiamargli un’infrazione di passi: da quel momento Chamberlain non gli permise più di tirare al suo cospetto! A chi mi chiede perché amo il basket dico una cosa: gli afroamericani sanno cantare, ballare e giocare a pallacanestro meglio di chiunque altro. Chi ama questo ritmo dell’esistenza, non può esimersi dall’amare la palla a spicchi!”

corradobarbarisi@hotmail.it

Ingegnere elettronico di primo livello. Giornalista pubblicista dal 26 novembre 2015